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DENSAMENTE BANGLADESH

Reportage da un Paese dove non basta “aggiungere un posto a tavola”, bisognerebbe aggiungere una tavola.

Estensione di un’articolo ben più corto uscito sul cartaceo di Edera rivista, nel numero di giugno 2023

Ho sempre visto gli indicatori come qualcosa di astratto, sterili numeri che stentavano a prendere vita nell’immaginazione di uno studente delle scuole medie. Ad esempio, mi risultava difficile quantificare i chilometri all’ora, percepire e relazionare tra loro lo spazio ed il tempo era qualcosa di complesso; fu andando in bici che la velocità iniziava ad uscire dalle lancette del contachilometri e si manifestava sulla pelle. Le discese in particolare erano adrenalina, chilometri macinati ad alte velocità ed in poco tempo.

Quando ero alle scuole medie e superiori mi affascinava una materia piena di indicatori: la geografia. Mi piaceva al punto che quando scoprii che il corso di laurea triennale era stato soppresso da tutte le università italiane, ci rimasi male. La mia carriera da geografo era stata troncata prima ancora di iniziare e le nozioni che mi rimanevano erano quelle acquisite tra medie, superiori ed ore trascorse a sfogliare atlanti e dizionari di scienze della terra: paesi e capitali, fiumi e montagne, settori industriali, popolazioni ed abitanti; nozioni astratte sotto forma di nomi e numeri, che assumeranno contorni di realtà solamente con i viaggi che avrei iniziato a compiere negli anni a seguire.

Eppure vi era un indicatore in particolare che fino ad ora non avevo mai considerato, era rimasto benignamente silente, e doveva ancora sbloccarsi sul mio personale mappamondo: la densità abitativa.

Come spesso accade finché non ci si trova davanti ad una cosa o ad una situazione non ci si rende realmente conto di cosa essa significhi. Si possono aver visto mille partite di calcio in televisione, ma entrare in uno stadio è un’altra emozione. Si possono aver visto le foto del monte Cervino, ma è quando la montagna si staglia davanti a te che si capisce la sua immensità. È stato così per il mio approdo in Bangladesh. Tutti abbiamo presente le immagini di strade affollate, dei treni pieni. Finche non me le sono trovate davanti, rimanevano foto immaginarie create da intelligenze artificiali; invece, questo mondo esiste, ed ha le sembianze del Bangladesh.


Il Paese è il più densamente popolato al mondo, se escludiamo le città-stato (Singapore, Principato di Monaco, Lussemburgo) dove per quanto vi sia la sensazione di calca, non è superiore a quella che si può percepire a Londra o a Istanbul un martedì pomeriggio. Il Bangladesh ha 1265 abitanti per chilometro quadrato. La densità misura proprio questo, gli abitanti per kmq. Un dato che se cresciuti in Italia è di 206 e che ci lascia piuttosto indifferenti, e che sicuramente non ci preoccupa visto l’andamento demografico. La superficie del Bangladesh è di 147.630 kmq, paragonabile per estensione alla Grecia, e per numero di abitanti è l’ottavo al mondo: 170 milioni. Il territorio è pressoché pianeggiante ed è ricco di acqua e fiumi, nel golfo del Bengala sfocia il Gange, chiamato Padma dal momento in cui le sue acque lasciano l’India. Beata toponomastica.

Un tranquillo lunedì pomeriggio a Dacca

In Bangladesh ci sono stato un mese, per turismo, ciò che ne uscirà in questo articolo sarà una mia personale fotografia del paese, non certo un report dettagliato dell’OCSE. Dopo un mese, posso dire di aver fatto parte di questa densità, di essermi sentito assorbito dalle sue abitudini e di essere stato uno 0.0019 dei visitatori stranieri per numero di abitanti (l’Italia ne ha 0,65). Posso giungere a queste conclusioni con il privilegio di chi si è recato in un posto per un lasso di tempo determinato per poi abbandonarlo, ma i problemi quotidiani dei cittadini rimarranno in loco. Il traffico, che per me ha quasi assunto il ruolo di maggior attrazione del paese, è handicap per la vita quotidiana delle persone.
Tuttavia, nel paese il turismo esiste, e muove enormi flussi di persone, ma si tratta unicamente di turismo interno, secondo quindi le sue personalissime dinamiche, volto a soddisfare le esigenze dei milioni di abitanti che si recano a visitare le (poche) destinazioni.


Anche i miei bronchi potranno certificare di esserci stato, di aver respirato l’aria inquinata dalle industrie del secondo settore, motore ruggente che contribuisce alla crescita PIL tra il 6 ed i 7% nell’ultimo decennio. A Dacca sono tornato ad indossare la mascherina, l’aria è pesante, compatta, permeata di fumi di polvere, stantia. A Dacca non splende il sole, i suoi raggi non riescono a bucare la densità dell’aria.
Ho visto scorrere il paese al mio fianco da diverse prospettive e mezzi: treni, autobus, barche, macchine, tuktuk, moto e rickshaw a pedali. Tutti i mezzi sono utilizzati da persone, e se non sono pieni cercano altri clienti per riempirsi e guadagnarsi da vivere. La gente si muove. Tutti affollano le strade, compatte di traffico e catrame, dense di veicoli. Anche i fiumi sono pieni, ma non solo di acqua, bensì anche di pesci e pescatori, di barche. Densi di vita, di persone che sfruttano le acque per pulirsi e per pulire vestiti e stoviglie. Quando il Bangladesh ha raggiunto l’indipendenza dal Pakistan nel 1971, non esistevano nemmeno le maggiori strade di connessione, mi racconta Umor, rivelandomi come la popolazione sfruttava il trasporto su fiume e seguiva il corso naturale dell’acqua, tutt’ora risorsa cruciale per la produzione di energia, ed il trasporto di merci e persone.

La densità è un problema quindi? Diciamo che troppe persone in un ascensore fanno partire un allarme: o qualcuno esce o ci si blocca. Quindi o è piccolo l’ascensore, o si è in troppi. L’ allarme in Bangladesh sembra ancora non essere scattato, a livello governativo non sono state prese misure di contenimento delle nascite. Peccato però che per una nazione gli spazi sono definiti. Al crescere della popolazione (media calata dal +2% di fine anni 90’, all’attuale +1%) lo spazio vitale di ciascuna nuovo cittadino diminuisce, costringendo gli abitanti ad emigrare, non in cerca di pace (quella non manca), ma in cerca di spazio: un proprio spazio al mondo. Sono stato invitato nelle case dell’ospitalissima popolazione, e tre persone alla volta si sono alzate per lasciarmi il posto, mentre altre sei venivano alla porta per ammirare l’ospite. Abbiamo fatto i turni per mangiare. Sta al singolo cittadino diminuire il numero di figli, le nuove generazioni stanno avendo due bambini e non più quattro come i loro genitori. Non tutti considerano però questo fattore come un ostacolo per lo sviluppo futuro del paese, e quindi, la crescita continua.

Per effetto della crisi climatica non cala solo lo spazio vitale di ciascuna persona in termini relativi all’aumento della popolazione, ma a sparire è proprio lo spazio in sé: l’oceano Indiano rosicchia il golfo del Bengala di anno in anno. Le acque rubano terra agli umani e sommergono fragili ecosistemi di mangrovie e villaggi interi, rendendo nomadi i loro abitanti. Inizialmente, spostano le case costruite di lamiera, di marea in marea, sperando che l’oceano possa essere clemente con loro. Vivono nell’ansia che l’acqua possa invadere la loro terra. La soluzione è la resa, l’abbandono dei terreni. Le popolazioni migrano quindi nell’entro terra, o nel peggiore dei casi nelle periferie di Dacca, dove si creano catapecchie di lamiera e fango. Migliaia di persone all’anno si uniscono all’inferno urbano che è diventata la capitale bengalese, e così la crescita continua.

Tentativi di turismo, inevitabilmente “di massa”


La densità del Paese ha effetti sul quotidiano, sulla salute delle persone, costrette a condividere abitazioni per interi nuclei familiari. Ha effetti sull’ambiente, che si trova ad assorbire i rifiuti industriali e la sporcizia generata dai cittadini.
La densità ha effetto sulle poche infrastrutture, congestionate e usurate prima ancora che vengano inaugurate. Per strada ci si fa spazio a suon di colpi di clacson, le strade che collegano le città hanno due corsie, una per senso di marcia, e sono frequentate da tutti i mezzi di cui sopra, più le biciclette. Dense, per l’appunto. I clacson sono una costante, così come la gente. L’inquinamento acustico è fonte di stress per la psiche ed inficia sulla salute delle persone, è ormai sempre più riconosciuto in ambito scientifico e medico. Il rumore, infatti, interferisce nell’esecuzione di lavori ed esercizi complicati e modifica il nostro comportamento. Può poi avere un impatto sui livelli di pressione sanguigna. Anche se non fa male come l’inquinamento dell’aria.

Il connubio tra inquinamento, traffico, persone per chilometro quadrato, avviene a Dacca, capitale del Paese e quarta città al mondo per popolazione, con un agglomerato urbano di circa 24 milioni di abitanti. La capitale ha subito un’urbanizzazione rapida quanto la crescita demografica, diventando presto la capitale dello smog. Milioni di persone si sono riversate sulle rive del Padma perché “A Dacca ci sono i soldi” dicono i bengali, ma a che prezzo? A Dacca ci sono anche migliaia di senza tetto, animali di qualsiasi taglia, dalle zanzare e le mucche. La densità cittadina è di 30.000 (trenta mila!) persone per chilometro quadrato, se il Bangladesh è denso, la sua capitale è una soluzione satura di persone, animali, cemento, lamiere, cavi, clacson, cibo, odori e liquidi. Gli unici fortunati ad avere spazio ed una paga più che degna sembrano essere i giocatori di cricket, che stanno larghi nei campi ovali inseguendo una pallina, mentre il resto del paese li osserva gioiosi.

Eppure, si deve mangiare, si deve vivere dignitosamente, lo dicono i diritti dell’uomo. E allora il Bangladesh è pieno di cibo, colmo – per non dire denso – di banchetti e mercati. I bengalesi inoltre sono golosi, mangiano fritti, riso e dolci. A tutte le ore, basta che sia piccante. L’ età media è di 27 anni, l’aspettativa di vita di 73, la strada è lunga e in costruzione.

Lo sviluppo è rapido, troppo, ma la strada da recuperare è più di quella da fare – metaforicamente – o costruire, letteralmente. La produzione di mattoni in terracotta è dislocata in moltissime aree rurali del paese dove sta avvenendo il passaggio da case in lamiera a casa in muratura. La ricchezza estera langue. Anche qui i cinesi costruiscono le strade, il Giappone sta ultimando la metro di Dacca, opera essenziale per iniziare a decongestionare la metropoli. I capitali stranieri alimentano la filiera del fast fashion, il “made in Bangladesh” non è certo tutelato ed apprezzato come altri “made in” (inserire paese), è un marchio di fabbrica, non un brand, eppure è impresso a fianco ai maggiori brand che dislocano la produzione sfruttando il basso costo della manodopera, e dando lavoro a milioni di persone nell’industria del tessile. Il Bangladesh torna utile anche per smantellare navi di grandi dimensioni, nel sud del paese vi sono fabbriche specializzate nel recuperare pezzi e componenti, per rivenderle nel mercato interno e contribuire allo sviluppo del paese e delle infrastrutture. Il prezzo? Lo pagano i Bengalesi, lo paga l’ambiente che accoglie qualsiasi rifiuto in decomposizione: denso di polveri e di speranze.

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